Il sogno della farfalla

Alle nove meno un quarto di una pigra mattina di primavera mia madre entrò in camera per darmi il buongiorno. La sua voce irruppe nel mio sogno, modificandolo.
  -Paolo, su alzati! 
   Devi smontare i filtri del condizionatore e portarli da Buratti. 
Una tipica commissione di quelle che mia madre mi assegna le rare mattine che non ho da svegliarmi presto e che potrei restare a sognare fino a tardi.
  -Abbiamo già fatto il caffè -concluse, che era come dire “ormai non hai più scampo, non sperare di riaddormentarti”. 
Bevuto il caffè, cancellate con l’acqua fredda le impronte delle pieghe del cuscino dal volto, mi accinsi a sfilare i filtri dal condizionatore a parete della camera di mio fratello. 
  -Qualcuno li ha asciugati col fòn e ha rovinato la maglia -rammentò mia madre. -Eh… vanno ricomprati nuovi -convenne, notando i buchi nel fitto reticolo-. Pòrtatene uno solo come campione, che tanto sono uguali.
Poi mi ricordò:
  -Buratti, nel Corso, a fianco a Boatto calzature. 
Presi il rettangolo a maglie, lo infilai in una busta di plastica e mi avviai.

Numero 178 del Corso. Non appena individuai il numero civico che cercavo, una farfalla disorientata mi svolazzò davanti agli occhi.
Aprii la porta. Un cacciaspiriti cinese appeso sullo stipite tintinnò insieme al cigolare dei cardini.  
Mi accolse un giovane umile e curvo, con le mani in preghiera, che non doveva essere il titolare. Sembrava avere l’aria del factotum, quel bon à tout faire di cui ogni persona importante dispone. Quello che sottolinea, ripetendole, le uscite più felici del suo superiore, e che gli sbriga i negozi quotidiani: imbucare la posta, ricevere i clienti, lucidare le maniglie, eccetera…  
Aveva una faccia d’altri tempi, di quelle che si vedono sullo sfondo nelle foto del Giro d’Italia di Binda e Girardengo, con orecchie e naso prominenti, fronte sfuggente, labbra sottili, carnagione grigiastra.
Mi lasciò in attesa nel negozio e si ritirò oltre una tendina a cordicelle.
Esplorando con lo sguardo la bottega, trovai che non sembrava esattamente un rivenditore di condizionatori d’aria. Aveva piuttosto l’atmosfera della rigatteria di un tempo, stracolma di  cianfrusaglie, buia, piena di polvere e di ragnatele. Pareva che nessuno avesse spolverato da anni. Ricordo gli interruttori giganti, a valvola, e una macchina da scrivere con tastiera tipo Remington d’epoca: la A come prima lettera in alto a sinistra in luogo della Q. Da una pendola a muro proveniva un tic-tac eterno. Su una parete, fra la cartina di un’Italia che includeva l’Istria e una chiazza di umidità, una foto in bianco e nero di un Papa che non riconobbi.
A un tratto quello che poteva essere Buratti sbucò dal retro, seguito dal giovane aiutante. Era molto più anziano e più curvo del suo secondo, con l’aspetto di un parroco di provincia in borghese. 
  -Buongiorno. Avete i filtri dei condizionatori della Daikin? -chiesi.
  -I filtri… che filtri?
  -Del condizionatore -dissi-, tipo questo -chiarii tirando fuori dalla busta di plastica il filtro.
  -Condizionatore? di che cosa? e chi condiziona? -domandò Buratti interdetto.
  -Beh, condiziona l’aria! -azzardai.
  Buratti prese sospettoso il filtro e lo guardò per un istante, poi lo passò al suo secondo.
  -Mi sembra di aver capito cosa andate cercando -disse con sguardo malizioso. Ammiccò verso il factotum, che approvò con un sorriso goffo.  
Buratti si ritirò e scomparve oltre la tendina a catenelle di palline di legno. 
Rimasi per un po’ al banco col suo subalterno, che intanto ispezionava il filtro rigirandolo da tutte le parti. Finalmente lo agitò come un ventaglio.
  -Condiziona… l’aria! -osservò, esponendo i denti storti in un sorriso inutile.
Buratti rispuntò dalla tendina del retrobottega con in mano un pesante tomo rilegato in seta nera. 
Lo depose abbandonandolo di peso sul bancone. Una nuvola di polvere pruriginosa si sollevò e si sparse per l’aria insalubre.
  -Eccoci qua -disse porgendo l’indice della mano destra sulla lingua per sfogliare le pagine del tomo.  
  -Allora, vediamo un po’… non è questo il pezzo che andate cercando? -mi chiese indicando con l’unghia gialla un francobollo raffigurante una signorina che impugnava un ventaglio con la scritta España su un lato.
Trasse una lente d’ingrandimento, posta fra una copia de L’Osservatore Romano e un pastorello di porcellana smaltata che soffiava in uno zufolo, e me la porse.
  -Beh, forse non mi sono spiegato bene -dissi, rinunciando all’esame dell’ingrandimento.
  -Come, non alludevate a questo rarissimo esemplare? -chiese Buratti meravigliato. 
  -Mah,… guardi, io non sono venuto qui per francobolli, non sono un intenditore, anzi, non ne capisco niente di francobolli. So appena che esiste un pezzo di valore, il Gronchi Rosa, e un’edizione particolare del francobollo col Papa buono.
  -Che? gronchi rosa? Il Papa buono? Dire di un Papa che è buono -ragionò il vecchio- significa sostenere che gli altri Papi non lo siano! Tutti i Papi sono buoni nella loro infinita misericordia! -tuonò.
L’aiutante comprovò facendosi il segno della croce, a palpebre serrate.
Poi Buratti ritornò alla calma e mi fece cenno di avvicinargli l’orecchio.
  -Sapete a chi vi dovete rivolgere? -sussurrò con alito stagionato- a Battaglini!
  -Battaglini? e chi è? Ma non ce l’avete voi l’esclusiva della Daikin? -domandai, notando il tartaro che gli ricopriva gli incisivi inferiori.  
  -Non sa chi è Battaglini… -disse Buratti indicandomi col pollice, rivolto al suo secondo con aria compassionevole.
  -Il Cavalier Amedeo Battaglini -rivelò sottovoce- tratta tutti i pezzi più rari.
  -Guardi, non so che dirle… forse ho sbagliato negozio -dissi riponendo il filtro nella busta.- Beh, grazie comunque. Buongiorno.
Uscii da quella bottega anacronistica, ritornando alla normalità dei codici a barre, delle fibre ottiche e dei pin numbers delle schede magnetiche. 
Mi indirizzai sovrappensiero verso la fermata della Sotterranea di Piazza Matteotti, quando ricordai di essere uscito in macchina.
  -Adesso al posto della mia Citröen trovo una macchina col predellino accanto alle portiere e la manovella per l’accensione -immaginai, convinto di aver pensato una cosa spiritosa.
  Rientrai a casa senza i filtri nuovi. Mia madre pensò che mi fossi dimenticato di passare da Buratti, e che stessi inventando scuse.
  -Come sarebbe “non c’era nessun rivenditore di condizionatori”? Ma se è lì da anni, Buratti! Sei anni fa, quando gli abbiamo fatto montare gli split, già stava al Corso!

  Mi ricapitò, due giorni dopo, di passare al Corso e mi fermai per verificare. Non potevo avere sbagliato negozio. Io ero entrato proprio al numero 178.
Accanto al numero 178 c’erano: da una parte il fiammante bar-tabacchi Balletto, dall’altra il sobrio negozio di scarpe Boatto. Più oltre c’erano: da un lato la trafficata farmacia Beruatto, dall’altro l’efficiente tintolavanderia Bitetto. Del Buratti rigattiere nessuna traccia. 
Dove qualche giorno prima stava il rigattiere, c’era un’abbagliante vetrina con condizionatori in  esposizione. Provai ad entrare ugualmente. 
Mi accolse una gentile commessa in tailleur e collant, che mi assicurò che Buratti Climatizzazione stava lì da otto anni. Quella bella ragazza sorridente e profumata era l’esatto contrario dei tipi che occupavano l’antico e polveroso bric à brac Buratti.

Eppure ero sicuro. Non fu una visione, fu un’esperienza che vissi fisicamente. L’immaginazione può ingannare la memoria: fantasticare è più facile che ricordare, è vero, tuttavia le cose provate con i sensi rimangono, si cristallizzano. Ancora oggi, ad esempio, quando devo emettere uno starnuto dispettoso che non vuole esplodere, mi basta indirizzare lo sguardo verso il sole o un’altra fonte di luce e ripensare alla polvere di quel rigattiere. Il pensiero di quella polvere antica, che avvertii con le mucose, che mi generò prurito e lacrime allergiche, mi agevola tuttora lo starnuto.
  Per lungo tempo ripensai a quella bottega. Non mi rassegnavo all’idea che non ci fosse più, che, anzi, sembrava non esserci mai stata. Eppure io ero stato in quella rigatteria, avevo parlato con quegli uomini d’un altro tempo, mi ero strofinato gli occhi irritati.
Pensai di interrogare il muto filtro del condizionatore: 
  -Tu sei l’unico testimone! Perché non parli? -avrei potuto chiedergli.

  Finché un giorno lessi, in un’Antologia della letteratura fantastica, un racconto che mi illuminò: “Il sogno della farfalla”, di Chuang Chou, scrittore della scuola taoista del III secolo avanti Cristo.

  Un tempo io, Chuang Chou, sognai di essere una farfalla: una farfalla svolazzante, contenta di essere tale e ignara di Chuang Chou.
All’improvviso mi destai ed ecco: ero tornato ad essere davvero Chuang Chou.
Adesso però io non so più se sono Chuang Chou, che ha sognato di essere una farfalla, o se sono una farfalla che sogna di essere Chuang Chou, benché tra una farfalla e Chuang Chou vi sia certamente differenza.

Mi inquieta un dilemma analogo a quello di Chuang Chou. 
Non so più se vivo in un tempo di mind-tester, meningòfori e trilli di microtelefoni ed ho sognato quel mondo di polvere, umidità e tartaro, o se vivo in quel mondo e sto sognando l’alba del ventunesimo secolo. 

Cagliari, Settembre 1997.